Musica, libri, cinema e fumetti: l'angolo del giornalista Walter De Stradis – rastawalter@gmail.com

Intervista con Antonio Infantino: il Lucano che cambiò la musica italiana

foto 4Splendida barba bianca, occhiali tondi e copricapo etiope: Antonio Infantino, musicista, pittore, scultore, sembra un vero e proprio profeta millenario. Ma essendo lucano, nonostante un curriculum da far impallidire quasi tutti i musicisti e cantanti italiani viventi, sa bene che in questa regione, più che mai, “Nessuno è profeta in patria”.

In questa rubrica, coi politici parliamo anche di musica. Il suo collega musicista Agostino Gerardi si è candidato al Comune. A lei è mai stata fatta una proposta del genere?

Mi hanno raccontato che una volta all’APT c’era da fare qualche nomina e avevano pensato a me, ma poi non se n’era fatto nulla, perché non sono un tipo “manovrabile”. A parte questo, per moltissimi anni, nella vetrina della libreria “Rinascita” a Roma, nei pressi di Botteghe Oscure, c’era un mio LP del 1977, “Le follie del divino spirito santo”. Era impossibile non vederlo. Ancora prima, nel 1968, avevo fatto un 45 giri di propaganda politica, diffuso dagli altoparlanti in tutta Italia, ma accreditato al “PCI” e non a me. Era stato registrato artigianalmente all’interno di Botteghe Oscure alla presenza di Nilde Iotti, e all’epoca era molto celebre.

Il suo primo album a quando risale?

Al 1966, con “Ho la criniera da leone (perciò attenzione)”, un disco uscito per la Ricordi con gli orchestrali della Scala. Musica d’autore, canzoni mie.

All’inizio quindi era un cantante melodico?

Più che cantante, diciamo che musicavo le mie poesie, che erano state pubblicate prima. Avevo iniziato all’università, strimpellando la chitarra e dando vita a versi nati lì per lì. Ero un menestrello, un cantastorie, che usava la chitarra più che altro per sottolineare la metrica del verso.

Un po’ come facevano i “Last Poets” ad Harlem, ma con i tamburi…

Ma no, è una tradizione millenaria. Omero era un rapsodo. Il Rap non l’hanno mica inventato gli Americani, sai.

E’ di quel periodo la sua raccolta di poesie per Feltrinelli?

Sì, Fernanda Pivano mi notò che mi esibivo al “Nebbia Club” di Milano (dove, tempo prima, ero andato e avevo semplicemente chiesto “Posso suonà?”), mi propose di fare un libro e mi disse semplicemente “Scrivi”. Mi ospitarono a via Manzoni, vicino alla Scala, e io passai una notte sulla macchina da scrivere, mentre tutti dormivano, a realizzare le poesie che poi furono pubblicate. Successivamente il Mago Zurlì mi invitò a cantare in una sua trasmissione e io reinterpretai il “Cantico delle Creature” di san Francesco, aggiungendo delle strofe che ammonivano sul rischio nucleare.

Un po’ alla Celentano.

Sì, ma molto prima di lui.

Il suo percorso di musicologo, ricorda a tratti anche quello di Battiato: studioso e produttore di musica.

Anche lui è arrivato dopo. E’ troppo facile, qui in Italia, prendere e non dire.

Vuol dire che Battiato si è ispirato a Lei?

E non è il solo. Il disco del ’66 –numero di catalogo 6062- è precedente al disco di Lucio Battisti “Amore e non amore”: il cappello a cilindro che Battisti indossa sulla copertina è identico a quello che indossavo io sulla copertina del MIO disco. Stessa cosa per Rino Gaetano. Era il MIO look. Colombini, l’arrangiatore di Edoardo Bennato, che registrava in uno studiolo di fianco al mio, veniva a spiare le mie cose, incuriosito perché io a quei tempi già mi avvalevo di un amico persiano che suonava le percussioni tradizionali. De Gregori, Venditti, Gaetano, erano tutti fissi al Folk Studio.

E quindi “ascoltavano”….pubblicità libro

Mi è stato detto. Pensa che Francesco De Gregori, prima di un suo concerto a Firenze, mi riconobbe, mi salutò calorosamente e disse alle sue guardie del corpo “Questo qui può anche salire sul palco e sfasciare tutto, fategli fare quello che vuole”. Il motivo? Quando componeva metteva su una canzone mia. Me lo disse lui.

Ha nominato diversi cantautori che ha ispirato e che sono diventati pop-star. Lei non lo è diventato. Ma ne ha avuto la possibilità?

Certo. Mi fu chiesto di andare a Sanremo, ma io preferii andarmene con Dario Fo a fare Ci Ragiono e Canto. E poi, il mio “Tara’n Trance” in America si è piazzato al 18° posto in classifica, due posizioni sopra Mariah Carey! Altro che “grande successo di Lucio Dalla in America”, che per fare tutto esaurito, riempì di immigrati un locale di 300 persone.

Ma le hanno mai detto “Fai canzoni pop, che guadagni di più”?

Mi è SEMPRE stato detto. Un po’ l’ho anche fatto. Ho realizzato le musiche per il telefilm di Canale 5 “Vincere per Vincere” e per il film “Ternosecco” con Giancarlo Giannini, e mi hanno strapagato. Insomma le cose commerciali le ho fatte, ma poi ho detto basta. Non è quello che mi interessa fare, mi basta aver cambiato la storia della musica. L’importante è seminare.

Ma il pubblico lucano, finora, ha veramente capito la sua musica?

Assolutamente no. Perché le mie non sono cose facili, sono cose a livello internazionale, gli Americani le stanno cominciando a capire adesso. Io ho avuto un premio dalla Gilda di San Luca, superiore al Nobel. Quello che io faccio da quarant’anni, l’aveva capito Demetrio Stratos, la voce degli Area, che era greco, non italiano. Anche lui ammise di aver imparato da me alcune sonorità. La mia è la ricerca del “substrato permanente”, ovvero la base comune che è in tutto. In ogni caso la gratificazione maggiore sta nel vedere il pubblico che balla senza sosta, in una sorta di anello magico. Non è strettamente necessario essere “capiti”. Non puoi certo stare a spiegare al pubblico, di volta in volta, tutti gli studi che hai fatto e le tecniche che hai appreso.

Ma uno, per suonare con lei, cosa dev’essere… un mostro?

Adda sunà e basta.

Ma lei che è una specie di “marziano” della cultura e della musica, ci crede agli extraterrestri?

L’esistenza degli alieni non è rilevante, non è una cosa che possa stupire. Mia nonna vedeva gli angeli del cielo.

E quindi?

E quindi ognuno si costruisce il mondo che vuole. Il dato di fatto è che se la mente umana pensa una cosa, quella cosa non può non esistere. Ma qui siamo nella filosofia. Detto questo, nella mistica ci sono infiniti soli, infiniti mondi, infiniti universi.

Come si spiega, secondo lei, che le antiche civiltà, gli Egizi, i Sumeri, gli Assiro-Babilonesi, avevano delle conoscenze che noi abbiamo scoperto solo dopo?

E’ tutto insito nella natura. Basta osservare. Gli Antichi avevano evidentemente questa grande capacità di osservare i fatti naturali e di “leggerne” la struttura insita. Io stesso ultimamente mi sono dedicato all’osservazione di alcuni fiori piccolissimi, che non avevo mai notato prima, e ho scoperto che nascondono delle strutture geometriche complicatissime.

Veniamo ora alla struttura della “Tarantella”: è un parola semplice, ma il concetto alla base non lo è.

Ne “La Terra del rimorso”, un libro che ha segnato il campo della ricerca socio-antropologica, Ernesto De Martino scrive tre righe. Lui vedeva il tarantismo lucano come espressione della “miseria psicologica”, dovuto alla condizione sociale e alla povertà: la gente non potendo andare dallo psicanalista, andava dal “masciaro”. Ebbene, in queste famose tre righe, le uniche veramente interessanti per me, lui scrive: “Non dimentichiamo che in questa terra di magia e superstizioni, è stato inventato anche il concetto di catarsi”, e quindi tutti i rituali Orfico-Pitagorici.

Si tratta quindi di andare oltre il clichè?

Quando parliamo di “catarsi”, non parliamo più di cultura folklorica o popolare in senso negativo. Nuovo e tradizione -valore questo che va visto per i suoi contenuti- vanno a impostare una visione del mondo, e QUESTO fa veramente parte della cultura lucana. Dietro alla cultura “turistica” dei contadini che stanno in cima al bosco, o del pescatore di Metaponto, si scopre invece che questi parlano esattamente come Pitagora, esattamente come Parmenide! E questo succede non perché è folklore, e non perché è roba finanziata dalla Pro-Loco, che di solito persegue obiettivi non rilevanti, perché a capo c’è un politico trombato che è stato piazzato lì per contentino, ma che di cultura non capisce niente. Allo stesso modo, qualcuno mi deve spiegare cosa si intende da queste parti per “qualità”, visto che vengono finanziati degli obbrobri e strapagati degli artisti di dubbio valore.

Ma la “catarsi”, in parole povere, che cos’è?

Il mio modo di suonare la musica, affonda nella notte dei tempi, ma è scientificamente supportato. La mia musica è certamente frutto della tradizione orale, ma non solo, non basta. “Catarsi” vuol dire “purificazione”: la danza diventa un apparato terapeutico, che cura l’anima, la depressione, il malessere. Una ritualità che libera, che purifica. Musicalmente, però, si tratta di scoprire e ri-scoprire. certi suoni, certe tecniche, certi segreti, io li ho intuiti, ma poi ho dovuto scientificamente verificarli. Il ritmo che io uso si chiama ritmo “cretico”: le parole e le note creano dei “giochi di suoni” che producono degli armonici, detti anche “terzi suoni”, che hanno un effetto particolare sul corpo umano. Insomma, le persone che vengono ai miei concerti, a un certo punto non possono fare a meno di mettersi a ballare e a saltare come dei grilli. 

Walter De Stradis

 


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