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Eugenio Bennato: «Viva i giovani del Sud con chitarra battente e tamburello!» L’INTERVISTA

eubennSin dai tempi della Nuova Compagnia di Canto Popolare, è uno degli indiscussi “guru” del recupero della musica popolare in Italia. Nel corso dell’ultima puntata de “I Viaggi di Gulliver” (in onda il lunedì sera su Radio Potenza Centrale), abbiamo  (nuovamente) intercettato Eugenio Bennato, per ragionare sullo stato dell’arte di quello che una volta si chiamava “folk revival”.

Col tuo “Taranta Power” hai cercato di creare un movimento della taranta, inteso come folk del Sud. Al di là del successo personale, credi di esserci riuscito, o il mondo della musica popolare è ancora diviso in tanti piccoli “orticelli”, specie a livello regionale, come appare in Basilicata?

No, il movimento esiste ed è fuori discussione. Meglio ancora lo si capisce pensando a tutto quello che non esisteva fino a qualche anno fa, cioè l’interesse verso un certo tipo di musica: non esistevano poi tutti questi gruppi e artisti dedicati al recupero, in termini di creatività, della propria identità. Sicuramente esiste, che poi sia frammentato, beh,  diciamo senza lamentarci che tutto quello che rischiava di andar perso nell’oblio 20-30 anni fa, quando io mi muovevo con molto entusiasmo, siamo riusciti a salvarlo. I maestri sono adesso artisti riconosciuti, possiamo dire che c’è un movimento poderoso. Il vero problema di questo movimento è la creatività, ci vogliono gli artisti, non si possono ripetere all’infinito -come spesso accade in Salento-  le stesse musiche e melodie. La musica è viva e deve andare di pari passo con la storia: prima avete mandato la mia “Mon père et ma mère”, che appunto ne è una dimostrazione.

Per “Il Saggiatore” è uscito un librone di 1000 pagine, molte delle quali sono dedicate a lei, alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, Musicanova ecc… Ma a te piace il termine ‘Folk Revival’ oppure adesso preferisci “World Music”, volendo dare per forza una definizione?

I termini sono codici che usano i giornalisti, ma che non cambiano le cose. Certo, si chiamava “Italian Folk Revival” negli anni ’70, oggi si chiama più “World Music”, ma tante cose ora sono cambiate, poiché esistono nella lingua italiana così tanti neologismi che se venisse una persona della generazione precedente, non riuscirebbe a capire di cosa parliamo!

A proposito delle cose che sono cambiate, ultimamente alcuni artisti -penso all’ultimo Avitabile, a Mannarino o allo stesso Vinicio Capossela– escono con delle major, che presentano questi dischi nelle librerie. È chiaro quindi che le grandi case editrici hanno capito che la vendita vera e propria dei dischi può avvenire in questo genere musicale, perché ci sono degli appassionati che magari,  se non nel mainstream, nel mercato un po’ più “di nicchia” i dischi li acquistano ancora. E’ una cosa positiva? O ritieni che questo possa appiattire certi generi musicali?

È positiva l’esposizione mediatica di questo tipo di musica; così come quando mi chiedono cosa ne penso della Notte della Taranta a Melpignano: è un fatto positivissimo. Noi dall’interno possiamo avere delle posizioni critiche in merito ai contenuti, ma è importante il fatto che mediaticamente ci sia un grande interesse, e devo dire che ancora è poco, perché la Rai di Stato è ancora assente e appiattita –quella sì- sui talent show, in cui spesso ci sono dei ragazzi che tentano di imitare una cultura che non appartiene a loro. Ben venga la musica dei giovani talenti del Sud con la chitarra battente e il tamburello, e se le major sono interessate a questo, è un segnale positivo.

Prima abbiamo ascoltato “Mon père et ma mère”, prima ancora “Che il Mediterraneo sia”. Una domanda che torna spesso in queste mie interviste: come bisogna interpretare questo mondo in cui si costruiscono muri, stiamo tornando indietro o è una cosa inevitabile? Secondo te, dove e quando si è innescato l’errore che ha portato a questa attualità fatta di conflitti d’intolleranza?

Questa è una domanda di tipo storico-politico molto complessa, io vorrei dare una risposta in termini musicali. Certamente, durante la Primavera Araba del 2011, molti artisti hanno esultato quando c’era da esultare, ma poi la storia a volte ci spiazza con delle cadute, per cui improvvisamente alla speranza subentra la disperazione e i grandi problemi interculturali. In questo la musica si salva: quando scrissi “Che il Mediterraneo sia”, era strano dare un titolo del genere: il mio era un augurio, un “andiamo avanti” verso un dialogo tra etnie diverse, ed in questo senso il Mediterraneo è chiaramente uno spartiacque.

Ma poi, il Mediterraneo … “è stato”?

Dal punto di vista musicale si. Io mi ritengo un precursore. Prima parlavi di Avitabile, Capossela, loro sono tutti nella scia delle cose che ho fatto qualche anno fa: penso a quando, alla fine del secolo scorso, ci sono state le collaborazioni con musicisti del Magreb, dell’Africa, e gli altri Sud del Mondo. Poi mi hanno anche detto che recentemente, dopo il Capodanno, c’è stato Enrico Ruggeri che ha dichiarato di essere stato rapito dalla musica popolare, così come ci sono tanti altri musicisti che vengono da un altro mondo musicale e che negli ultimi tempi si sono avvicinati alla grande a quel mondo sul quale io ho cercato di accendere i riflettori.

Secondo te la Basilicata, dal punto di vista della musica popolare, ha dato tutto quello che poteva al panorama musicale nazionale o ci sono ancora dei tesori da scoprire?

Per quanto riguarda la musica tradizionale –e questo non riguarda solo la Basilicata, ma tutto il Sud- quello che c’era da scoprire e raccogliere è stato fatto. Io non penso più al Folk Revival, ma al nuovo movimento musicale di artisti e in Lucania ce ne sono molti. Però vorrei citare comunque, parlando di questa regione, il personaggio che io ritengo il più grande artista del Folk Revival attualmente sulla scena, che è Antonio Infantino. È stato un punto di riferimento per me, per Carlo D’Angiò e rappresenta uno degli artisti più vivi, soprattutto per una caratteristica che lo contraddistingue: lui è completamente folle, lo è sempre stato. La follia è il sano viatico per qualsiasi opera d’arte.

Veniamo a Carmine Donnola, che abbiamo ascoltato prima nel tuo brano, “Mon père et ma mère”, nella versione registrata con lui per il film “Urli e risvegli” (del regista Nicola Ragone – ndr). Come è nato l’incontro con il poeta di Grassano?

È una cosa di cui sono fiero. Carmine Donnola si presentò all’Università di Potenza un giorno in cui c’ero io, nel corso di una conferenza. Mi ricordo che in tutto questo gran casino, in mezzo ai ragazzi dell’Università, c’era questo tipo strano, avete presente la sua faccia, no? Beh, sembrava quasi un barbone e infatti quando si avvicinò a me per darmi un pacco, i Carabinieri lo fermarono, perché dava solo segnali inquietanti il suo aspetto (ride). Ma io vidi il suo sguardo. Personalmente sono lontano da ogni forma di divismo, dall’atteggiarmi, e notai una certa umanità nel suo sguardo, pensando “Questa persona forse deve dirmi qualcosa”. Mi diede un cd, dove c’era una poesia, la poesia “del Terrone”, registrata e recitata da lui,  e in sottofondo c’era “Brigante se more”. Mi resi conto che ero di fronte ad un’espressione di creatività che veniva dalla Basilicata; lo chiamai e gli feci dei complimenti, non di circostanza, perché realmente mi aveva colpito il suo entusiasmo poetico. Lui allora ha cominciato a scrivere alacremente e a mandarmi sempre più cose, e ora è stato anche gratificato con un film-documentario sulla sua carriera, che è un risultato importante.

 Walter De Stradis

 (di seguito l’audio completo dell’intervista radiofonica)

 


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