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Teresa De Sio fra Pino Daniele, Folk e … Marley – L’INTERVISTA (testo + audio)

teresa-smallSi chiama “Teresa canta Pino”, il disco-tributo che una delle regine del folk italiano (ma è una definizione sicuramente parziale) ha voluto dedicare al conterraneo Pino Daniele.

Walter De Stradis ha avuto modo di intervistare Teresa De Sio nel corso della puntata de “I Viaggi di Gulliver” andata in onda, come ogni lunedì, su Radio Potenza Centrale.

Partirei da una tua dichiarazione presente sul libricino “Napule è”, uscito (in allegato a “Il Mattino” – ndr) subito dopo la morte di Pino Daniele. Vi si legge che ti arrabbiavi molto quando, nei primi anni Ottanta, affermavano che eri la sua “versione femminile”. Oggi invece quel paragone ti onora perché hai capito che c’era un collegamento. Vuoi spiegare un po’ questo passaggio?

Intanto vorrei dire che, in linea generale, a noi signore, non piace essere definite “la versione femminile” di qualcuno, perché appare sempre come una cosa sgradevole. Spesso, inoltre, non corrisponde alla verità, ma è solo una esemplificazione giornalistica e della comunicazione. Per questo motivo, in quel periodo lì, questa cosa mi faceva arrabbiare, anche perché, pur avendo un nucleo centrale iniziale molto affine con Pino -visto che entrambi venivamo da Napoli, usavamo la lingua napoletana e ampliavamo il  mondo sonoro di questa lingua- andavamo in direzioni diverse l’uno dall’altra. Lui era più verso la il blues e la musica afroamericana, io in quegli anni facevo folk, pop e rock, che sono poi i miei mondi di riferimento.

Il tuo primo album, infatti, era un disco di villanelle.

Si, musica del ‘500. Quindi, io nasco come musicista folk, in quegli anni però ero una ragazza legata al rock, al punk. Con Pino quindi avevamo una matrice comune, ma tragitti sviluppati in maniera diversa. Per questo mi arrabbiavo quando mi dicevano che ero il femminile di Pino Daniele, sentivo che non corrispondeva a verità. Certo, oggi però capisco che la cosa più importante che veniva percepita della mia musica, e anche di quella di Pino, è il fatto che fossimo entrambi napoletani: non a caso in quegli anni, bontà loro, ci chiamavano “Il Re e la Regina”. Quindi sì, era così, ma oggi mi sento invece molto onorata da questa cosa, perché ne capisco il significato.

In merito a “Teresa canta Pino”, con quale criterio hai scelto le canzoni del repertorio di Pino Daniele?

È stata un’operazione complicata, perché Pino ha prodotto tanto e per tanto tempo. Da un lato, non volevo fare un disco solo di “hit”, perché sarebbe stato scontato; d’altra parte, se avessi fatto un disco con i testi meno conosciuti -ma che magari io ritengo importanti e belli nonostante non abbiano avuto la stessa esposizione degli altri- sarebbe sembrata una posizione un po’ snob. Questo è stato un criterio. L’altro, più importante, è stato scegliere il Pino “napoletano”, perché lui ha scritto molto in italiano e non solo. Ho scelto il Pino “napoletano” proprio per ribadire questa vicinanza tra me e lui; e, non ultimo, ho scelto quei brani che sarei riuscita a portare più facilmente nel mio mondo sonoro, quelle canzoni che mi piaceva di più cantare, quelle a cui potevo dare qualcosa  con il mio arrangiamento, la mia interpretazione. Non so se qualcosa in più, ma sicuramente qualcosa di diverso.

Ascoltando il disco, è evidente che non si tratta di semplici cover. Qual è la ricetta che hai usato per personalizzare i brani?

Cover non le avrei mai fatte. La ricetta è stata quella di mantenerne intatto il mondo autoriale di Pino, quindi la scrittura dei testi e la scrittura musicale, trasportando tutto, però, in un impasto sonoro più vicino al mio mondo: spogliandolo del blues e dell’afro-America, legandolo al mondo del folk, del pop e del rock. In questo disco c’è anche qualche nota di reggae, che è un’altra delle mie musiche di formazione.

Infatti c’è “’O Jammone”, che è un brano scritto da te e dedicato a Pino Daniele. Il titolo fa riferimento alla “Parlesia”, ovvero lo slang che usano i musicisti  napoletani tra di loro. È un brano reggae, dunque, e mi permetto di dire, suonato molto bene.

Sì, è più un dub.

Voglio fare poi riferimento a quella compilation da te curata, “Riddim a Sud”,  in cui c’era questo tentativo di portare proprio l’uso dei riddim (base musicale che nel reggae viene riusata più volte – ndr) nella musica folk. Qual è il tuo rapporto con la musica reggae?

Scorre proprio nel mio sangue, non so perché, ma è stata una delle mie musiche di formazione; sin da ragazzina le prime cose che ho sentito, da Bob Marley in poi, erano queste e da lì in poi ho amato questa musica e mi sembra che la so fare pure benino. È così, sai, ci sono delle cose magiche, per cui non c’è spiegazione. È un mio ‘Sense8’, e questa cosa la capirà solamente chi ama il cinema: chi non ha Netflix non mi capirà (risate).

Questo progetto di “Riddim a Sud”, avrà un seguito? Sei soddisfatta di come è andata la prima volta?

Dal punto di vista artistico, sono soddisfattissima, perché sono convinta di aver creato qualcosa che prima non c’era. Un esperimento simile era stato fatto precedentemente solo dagli Africa Unite, ma sui loro pezzi, che sono già reggae di partenza, ma sul folk non era mai stato fatto. Odio lamentarmi, ma purtroppo viviamo in paese dove cose del genere non vengono  apprezzate, anche in presenza di una marcia in  più che viene data al folk. In realtà, infatti, tutti i pezzi della tradizione folk si basano su dei riddim; se pensi alla tarantella, alla pizzica, alle ballate popolari … le tarantelle in minore o in maggiore di Rodi Garganico sono in pratica dei riddim,:  cioè hanno tutte lo stesso ritmo, e poi tutti ci cantano sopra quello che vogliono.

Il nostro panorama musicale quindi non era pronto?

No, assolutamente, non era pronto.

Ultimissima domanda, abbiamo parlato di Pino Daniele, di Marley ecc… “’O Jammone” (“pezzo grosso” – ndr) della Basilicata, secondo me, è Antonio Infantino. Sei d’accordo?

Ah beh, certo. Grande Antonio Infantino. Mio amico. Antonio è totalmente fuori dai canoni, come persona prima di tutto e come artista. L’ho sempre ritenuto una persona speciale, peraltro una persona “avantgarde”, perché ha fatto molto prima di altri, tanti esperimenti nella musica. Mi ricordo, tantissimi anni fa, i suoi primi esperimenti in cui metteva insieme una ritmica elettronica addirittura con la pizzica. Ha fatto cose importanti prima di molti di noi. Una persona speciale, un amico, una persona fuori dai canoni, interessantissimo.

Qui sotto l’audio integrale dell’intervista


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